La scienza in cucina
Nel 1891 Pellegrino Artusi dà alle stampe uno dei titoli più fortunati dell’editoria (e della letteratura) italiana: La scienza in cucina, ovvero l’arte di mangiar bene. E’ grazie alle sue intuizioni che l’arte del mangiare diventa, anche in Italia, scienza.
Ma un altro titolo importante, per le varie ristampe e per il successo che ha avuto a livello internazionale, aveva preceduto il testo dell’Artusi di qualche decennio: si tratta della Physiologie du goût, ou Méditation de gastronomie transcendante, ouvrage théorique, historique et à l’ordre du jour di Jean-Anthelme Brillat-Savarin, del 1825. Brillat-Savarin, la cui opera è più nota con il titolo abbreviato di Fisiologia del gusto, era un brillante gourmet francese: nella sua opera trovano spazio, oltre al cibo in sé, tutto ciò che riguarda la sua preparazione, la presentazione, il consumo. Brillat-Savarin intuì quanta parte nella costruzione del goût avvenisse fuori del palato, e ha inaugurato un filone di studi che va ben al di là dei consigli per i cuochi.
Fra le sue collaborazioni, per esempio, ve n’è anche una con Gioacchino Rossini, il quale ne condivideva la passione per il cibo, che ha dato vita a quattro pezzi intitolati Vita di gourmet. Dai tempi di Brillat -Savarin e Artusi molte cose sono cambiate e molto abbiamo imparato; al giorno d’oggi la “scienza in cucina” gode di corsi di studi, di eminenti rappresentanti, di fiere dedicate. Da qualche anno, inoltre, le scienze esatte si sono dedicate a esplorare anche ciò che accade a livello microscopico: per non confonderla con l’altra “scienza in cucina”, la nuova disciplina ha preso il nome di “gastronomia molecolare”. La gastronomia molecolare studia le complicate reazioni chimiche e le trasformazioni fisiche che accompagnano la preparazione, la degustazione e la digestione del cibo.
Come già aveva intuito Brillat-Savarin, il gusto non appartiene esclusivamente al palato: noi percepiamo i sapori a partire da un insieme complesso di sensazioni, che includono la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto. Il ruolo che svolge la lingua nella percezione del gusto è tutto sommato ridotto: quattro o cinque sono infatti le sensazioni che ricevono le papille gustative dall’incontro con il cibo. Le papille gustative sono degli organi specializzati nel riconoscimento delle sensazioni base di amaro, dolce, salato e acido. Alcuni ritengono poi che vi sia un quinto sapore, chiamato “umami”, un sapore di “brodo” o “di carne” legato all’elaborazione del glutammato di sodio (reperibile nelle etichette alimentari come “esaltatore di sapidità”, molto usato nella cucina cinese e presente naturalmente in molti alimenti, in particolare nei pomodori e nel grana).
E più esatto dunque dire che sentiamo i sapori nel cervello: è solo mettendo insieme le sensazioni elaborate dall’odorato, dal tatto, dalla vista e dall’udito che ricostruiamo la sensazione complessa che chiamiamo “gusto”.
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